Un report di metà gennaio svolto da Groundwork Collaborative ha mostrato che ci sono prove schiaccianti che imputano ai profitti aziendali elevati la responsabilità del 53% dell’inflazione del 2° e 3° trimestre 2023. Nei 40 anni prima della pandemia, questo dato si fermava all’11%. Il report sottolinea che mentre i prezzi al consumo sono saliti del 3,4% quelli dei fattori produttivi hanno registrato un +1%. I produttori hanno mostrato quindi grande rapidità nel trasferire l’aumento dei costi ai consumatori e al tempo stesso una forte lentezza nel trasferire le successive diminuzioni.
Lo studio non vede la necessità di alzare ulteriormente i tassi di interesse da parte della Fed, ma quella di adottare politiche di contenimento del profitto aziendale. Isabella Weber, economista dell’University of Massachusetts Amherst, ha evidenziato che le società sfruttano gli shock sui costi causati da eventi come il conflitto tra Russia e Ucraina. In questo ambiente, le compagnie si sentono sicure ad alzare i prezzi, in quanto si aspettano che i competitor facciano lo stesso. Ciò diventa una forma di collusione implicata. Weber ritiene che se nessuna azienda lancia una guerra dei prezzi, le altre mantengono la linea e aumentano i margini.
Un esempio è rappresentato dall’industria dei pannolini USA, controllata al 70% da Procter & Gamble e Kimberly-Clark. Qui i prezzi sono saliti del 30% dal 2019, in parte a causa dall’aumento delle materie prime come la polpa di legno (+87% tra gennaio 2021 e gennaio 2023). Nel corso dell’anno scorso tuttavia, i costi sono scesi del 25%. Ciò non ha portato ad una flessione dei prezzi in linea con quella dei costi. Analizzando le telefonate di presentazione degli utili, Groundwork ha notato che i manager si vantavano di aver aumentato i margini grazie alla flessione dei costi dei fattori produttivi.
Fonte: The Guardian